All’interno degli eventi di Milano Photofestival, la galleria al 142, Enzo Cortini, Frequenze Visive e l’associazione l’Incontro sono liete di presentare la mostra
UMANE TRACCE – fotografie di Nicola Paccagnella a cura di Paola Riccardi
Inaugurazione venerdì 18 settembre 2020 ore 18.30 – 21.00
In esposizione dal 19 settembre al 4 ottobre, giovedì-ven-sab 16.30 – 19.30
tutti gli altri giorni su appuntamento T. 3402554947
presso la Galleria al 142 I Viale Monza 142 I cortile interno, citofono 105
Ingresso libero
Frequenze Visive organizza viaggio in bus A/R con partenza da Stra (Ve) alle ore 14.00 e rientro con partenza alle ore 21.00. Info e prenotazioni (entro giovedì 10 settembre) | Enzo Cortini – enzocortini@hotmail.com – cell. 3480029566
Tutto quello che vedete non c’è più. Abbattuto. Distrutto. Sparito.
Porto Marghera, 2018.
Tra incuria e abbandono, nel mezzo di un destino segnato, emergono tracce di vita, indizi di esistenza, bagliori di dignità.
Segni rarefatti di presenza invitano a riflettere sul nostro essere Umani attraverso un percorso in equilibrio tra contenuto emotivo e forza evocativa. Una fabbrica per la produzione di malto, dismessa e sottoposta a un progetto di riqualificazione portuale è fotografata appena prima della sua demolizione. Finiti gli anni produttivi, in epoche diverse gli edifici sono stati abitati da clandestini e rifugiati. Pur se il luogo fotografato è abbandonato, le immagini catturano in particolari atmosfere lo spirito di uomini sconosciuti di ieri e di oggi. E perfino la forza delle cose, attorno a quelle persone. Le fotografie accarezzano crudamente una presenza/assenza. Un non c’è più che sopravvive grazie alle immagini, in piena aderenza alla poetica della fotografia documentaria.
La mostra è accompagnata dal volume Umane Tracce (Ediz. Crowdbooks)
Scarica Invito mostra – Comunicato stampa
NICOLA PACCAGNELLA
Nicola Paccagnella è nato nella terraferma veneziana nel 1976. Dal 2012 scopre nella Fotografia lo strumento adatto per iniziare un percorso di ricerca e di espressione personale. La sua formazione universitaria, laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica ed ambientale, lo porta a focalizzarsi sulla città, nelle tante componenti che la generano e la vivono e sugli elementi essenziali che ne compongono il paesaggio e la quotidianità, in cui spesso la presenza umana è evocata e richiamata più che mostrata. Come scrive la storica dell’arte Francesca Boncompagni, “la sua Fotografia appare come una composizione di brani fotografici nei quali la nostra visione è completamente immersa. Ci guida dentro il suo universo interiore, nella sua dimensione psichica e introspettiva nel tentativo di spingere lo sguardo al di là di uno spazio definito. Una ricerca sperimentale volta alla scoperta di suggestioni, misteri, verità nascoste”.
Dal 2012 è membro di Frequenze Visive, un’associazione locale che esplora e promuove la cultura fotografica.
Alcune delle sue foto di street photography sulle città europee sono state inserite in una serie di mostre e cataloghi dedicati alle capitali d’Europa curati da Frequenze Visive.
Nel 2018 e nel 2019 ha lavorato al progetto Umane Tracce.
Nicola Paccagnella è scomparso prematuramente lo scorso 7 febbraio.
Alla memoria di Nicola Paccagnella è stato dedicato il Premio Umane Tracce che aprirà a gennaio 2021.
LIBRI
Umane Tracce, Edizioni Crowdbooks, 2020
Libro e stampe per collezionismo saranno acquistabili in mostra
MOSTRE
Con le sue fotografie ha partecipato a mostre collettive d’arte a Venezia, Genova, Perugia, Terni e Viterbo e a mostre fotografiche collettive a New York, Budapest, Cracovia, Genova e Trieste.
La mostra Umane Tracce sarà esposta alla Galleria al 142 di Milano dal 18 settembre al 4 ottobre 2020, all’interno degli eventi della rassegna Photofestival 2020, prima tappa di questo progetto.
2017
Scatto Matto, mostra fotografica collettiva, Genova, Palazzo Saluzzo
Gifts of Art, mostra collettiva di arte contemporanea, Genova, Palazzo Ducale
Intimarte, mostra collettiva di arte contemporanea, Perugia, Rocca Paolina
2018
Life, mostra personale, Padova, Virgo Club
Art Walk 2018, mostra collettiva di arte contemporanea, Venezia, Palazzo Zenobio
Black & White, mostra collettiva di arte contemporanea, Genova, Palazzo Saluzzo
London Calling, mostra fotografica collettiva con Frequenze Visive, Venezia, Vigonovo
Forme e Colore, mostra collettiva di arte contemporanea, Viterbo, Museo Colle del Duomo
Forme e Colore #2, mostra collettiva di arte contemporanea, Spoleto, Atelier Doriano
Urban Photo Award, concorso e mostra collettiva (3 foto selezionate), Trieste Airport
Urban Photo Award, concorso e mostra collettiva (3 foto selezionate), Krakow, Po Drodze (PL)
G.L.G. Premio Byron 2019, concorso e mostra collettiva (8° classificato), Terni, Museo Arcivescovile
Lines and Curves, concorso e mostra collettiva (1 foto selezionata), Budapest, PH21 Gallery (HU)
The Print Swap Project Party, mostra collettiva organizzata da Feature Shoot (2 foto selezionate), New York, Root
Studios Brooklin (USA)
2019
Forme e Colore, mostra collettiva di arte contemporanea, Viterbo, Museo Colle del Duomo
NICOLA PACCAGNELLA I fotografo
www.nicola.photos
umanetracce@gmail.com
GALLERIA al 142
Viale Monza 142, Milano
alcentoquarantadue@gmail.com
DIREZIONE ARTISTICA | Paola Riccardi
paolabox66@gmail.com
T. 3402554947
COMUNICAZIONE & NETWORK | Ida Chessa
idachessa@gmail.com
T. 3356663897
UMANE TRACCE di Paolo Coltro
Tutto quello che vedete in queste pagine non c’è più. Abbattuto. Distrutto. Sparito. Resta un rettangolo di terra più scura, ora definitivamente anonima, lungo un canale del porto, vecchia zona industriale. Sembrava anonimo anche lo stabilimento spazzato via, ma non lo era. Il solito cemento, ovvio; i soliti piani a occupare lo spazio verso l’alto, e dentro la razionalità produttiva: fatta di magazzini, stanzoni per la lavorazione, locali per la spedizione. Qui si faceva il malto per la birra, arrivava grezzo e ripartiva per le birrerie d’Europa, finché l’hanno chiesto. Il mercato ha fermato gli arrivi delle navi e dei camion, ha bloccato macchine e lavorazioni, ha svuotato di azienda e lavoratori l’opificio, rimasto senza opere. La fine ha cristallizzato la struttura, ne ha fissato la morte apparente negli anni ’80, ne ha deciso il vuoto esistenziale, per un po’. Il contenitore diventato inutile ha vissuto per decenni come cenotafio, monumento negletto, magari sconosciuto ai più, con un destino solo suo, silenzioso per il luogo via via diventato deserto, un deserto edificato e trapassato. L’abbandono è tragico per le cose – gli edifici – che non si muovono.
Il malto, il molto, il nulla, il poco, poi di nuovo il molto, e adesso il niente assoluto. Il molto, con il malto, erano le presenza umane. Dopo il nulla, è tornato il molto, con nuove presenze umane. «Edificio abbandonato e occupato», dice la definizione asettica. Lì dentro, per lo stesso principio per cui i nostri progenitori occupavano le caverne naturali, sono arrivati gli uomini di un’altra società, ad abitare le caverne del presente. Esseri quasi invisibili, o per lo meno con la voglia di esserlo, perché anche avere una casa nel nostro mondo presuppone delle regole. Fuori dalle regole c’è l’illegalità, e allora ci si nasconde, e va meglio se chi sta intorno preferisce non vedere. Ma come si fa a nascondere la vita? Il cemento è abbandonato ma resta organizzato, un tetto è un tetto per chi non ce l’ha. La catalessi dei muri spogli si interrompe, basta un piccolo elettroshock illegale perché si sentano di nuovo respiri, e voci, passi, tramestio. E’ la resistenza dell’esistere, della costruzione e degli uomini. Quei piani spettrali trovano una nuova funzione, diversa, imprevista, obbligata e necessaria. Il nuovo popolo – gli immigrati – è nero come il buio che ogni sera lo protegge, appena rischiarato a squarci dalle fiammelle che lo illuminano. Sembrano spettri anche loro, gli occupanti: si sa che ci sono ma non si vedono, abitano in locali che non sono nati per abitare. Di giorno torna il vuoto, ma lo stabilimento ha ancora sussulti di vita, confinati dell’off limits.
Il fatto è che il vuoto non lo è, perché è pieno di segni: di ex presenze, quelle antiche sparite da trent’anni; e quelle sopraggiunte. Quasi ad ogni passo, testimonianze: perfino un pezzetto di carta racconta la storia, è una fattura del 1964, parla di un’economia che non c’è più, di uffici spariti, di contabili chissà dove andati. I segni sono anche la struttura, i vecchi percorsi degli impianti, i grandi fori di comunicazione, le ombre dei macchinari scomparsi diventano vestigia. Ci sono particolari infimi, per esempio i chiodi, che diventano significanti, per chi vede. E se qui dentro entra un fotografo, vede eccome. E allora l’atmosfera del tempo che fu, racchiusa nel calcestruzzo, si trasforma in grafica, linee, disegno, composizione. E’ una geometria esistente, fatta resuscitare sotto la lente dell’estetica. Il fotografo ha il compito di documentare quello che fra un po’ non ci sarà più, ma fortunatamente va oltre, perché non può sottrarsi a due fascinazioni concorrenti e parallele. La prima è la materia che sembra defunta, e invece parla ancora. La seconda sono le tracce di quella vita che si è insinuata, abbarbicata, e sono tracce minime che si fanno scoprire come lucciole nel buio.
Cose, sono ancora cose. La traccia rivela l’umanità perché sono cose che servono alle persone. Non quadri elettrici, chiodi, scale abbandonate, ma per esempio scarpe. O un relitto di coperta, un letto poveramente agghindato con lenzuola da pochi euro, come si può. Povere cose per povere persone. Ma non è più un vuoto, è un pieno di tracce. E stupisce, per contrappasso, il vuoto di corpi. Che si immaginano, si intuiscono, magari si respirano. Si percepiscono brandelli di vita, al ribasso. Sparito completamente il lavoro, la collettività, il gruppo, l’abbandono ha spogliato di arredi e pulsioni il contenitore, gli ha tolto la sua funzione. Ma l’edificio è un corpo che non è ancora cadavere, nel suo canto del cigno. Non c’è più funzione economica? Ma il costruito vuol dire tetto e muri, protezione comunque. L’umanità e la necessità creano la nuova funzione-rifugio. Lo stabilimento ci dice: sono duro a morire. Ora però lo sciame dei dipendenti è sostituito da individualità notturne, una cuccia di cemento per dormire, un mondo scarno, freddo, grigio inventato come corazza a grumi di calore umano.
Meglio non adoperare l’aggettivo «essenziale», questo è luogo da poveri cristi. Ce lo dicono i segni/segnali: il cibo è un carrello da supermercato abbandonato, con tutti i suoi significati (dove è stato preso, chi l’ha portato, cosa conteneva); il relax (relax?) è una sedia di plastica sgangherata; l’indifferenza un cappello di paglia lasciato sul pavimento, rovescio.
Le fotografie accarezzano crudamente una presenza/assenza. Il fotografo cerca persone senza i loro corpi, cerca coscienze senza volto, cerca motivi che non ci sono più, cambiano, spariscono. Le immagini fanno passare in fretta dalla valutazione estetica (sono belle) a sensazioni più profonde: l’esistenza propria e altrui, i mondi possibili, la sofferenza, la lotta per la sopravvivenza, i cicli economici.
Non c’è tempo per il secondo abbandono, arrivano le ruspe. Queste fotografie catturano lo spirito, tutti gli spiriti di uomini sconosciuti di ieri e di oggi. E perfino la forza delle cose, attorno a quelle persone. Raccontano per flash intrisi di forma affascinante una forma che si è dissolta nella polvere dell’abbattimento. Di quelle vite – quella produttiva e quella di catacomba per viventi – restano solo queste immagini. Il non c’è più, grazie ad esse, c’è ancora.